"Lo stadio che non vorrei"... "Pallonata di galleggiamento"... "Cambia tattica"...
Ecco gli "oggetti" di alcune mail che in queste settimane tu Vittogol ci hai scritto per raccontarti e tenerci vicino, perché si gioca insieme, sempre.
Se un giocatore lo si vede dal coraggio, dall'altruismo, dalla fantasia e dalla fede… ne hai avuti in abbondanza amatissimo Vitto e stavolta hai segnato il tuo goal della Vita, quella Eterna. Dal tuo immenso campo da calcio butta un'occhiata quaggiù e tienici in squadra.
Questi sono i pensieri, le emozioni, le suggestioni che, come famiglie del Venite alla Festa, abbiamo raccolto per raccontarvi il nostro Vittorio che insieme a Francesca ed alla loro famiglia fanno parte della nostra comunità da oltre vent’anni.
Vitto che scrive, che crea con le parole, che giocando con le parole dà un nome alle cose, ai sentimenti, alle situazioni. Coniando nuove connessioni riesce ad esprimere il sentire e a trasformarlo quasi in immagini. E poi tutto questo diventa linguaggio comune e condiviso.
Vitto che crea e anima occasioni di festa, vacanza e soprattutto di gioco... con l'idea che tutto passa dalle relazioni significative, profonde ma con leggerezza.
Quella leggerezza che ti ha permesso di avvicinare molti dei nostri figli perché non sentivano distanza e soprattutto sentivano che eri autentico.
Una fine intelligenza unita ad un cuore grande e al desiderio di vedere un mondo più giusto. Capace di consolare e rimandare un senso di speranza. Credere senza vedere tutto subito. Un padre buono capace di rimanere critico e accogliente. La lucina che non si è mai spenta anche nei momenti più scuri. Una chiacchierata che dona ristoro.
Vitto che con tutti questi tuoi doni sempre messi al servizio sei sempre stato una presenza significativa, importante, grande... fino alla fine per come ci hai mostrato si possa affrontare l’inaffrontabile. Inversamente proporzionale con il tuo fisico, direttamente proporzionale con il volume della tua voce!
Sentiamo già la tua mancanza Vitto. Stiamo vivendo una sensazione di vuoto che ci fa paura. Ma come ci insegna la fisica la materia è piena di vuoti e in questa pienezza ci sono i frutti dello Spirito Santo che Vitto stesso ci dona in particolare la mitezza, la purezza, la fedeltà e la capacità di condividere e di far sentire l’altro importante in ciascun incontro. Un vero e proprio pacificatore.
E allora ti promettiamo che come tante volte ci hai invitato a fare insieme a Francesca nella vostra casa sempre accogliente... Noi continueremo a giocare!
E adesso ti chiediamo un ultimo favore: abbraccia Davide anche da parte nostra e insieme continuate a camminare con noi.
Ciao Vittogol!
Dai ragazzi del Vaf...
Tante volte noi ragazzi ci siamo sentiti chiedere che cos’è il Venite alla festa. È dono di giornate allegre e piene, è scuola dove insegno e dove imparo, è quel sentire che se ti appartiene ti abita nel cuore e già ti è caro.
È strada, itinerario, passo, è casa dove crescere: villaggio.
Grazie Signore, per la comunità del Venite alla festa, un grande villaggio di cuori.
Ha dato strumenti, opportunità a tanti noi, occasioni per scoprire i propri talenti e offrirli con le proprie caratteristiche e inclinazioni.
Aiuta la comunità del Venite alla festa a far trovare sempre un caldo abbraccio a Francesca, Rere, Nico, Benni, Carlos e nonna Paola e accompagna noi figli e fratelli di cuore nel continuare a mantenere vivo il villaggio in cui abbiamo avuto il dono di nascere.
Omelia in ricordo di Vittorio di Padre Giuliano Stenico
1 Cor 13,1-13; Mt 7,1.24-27
L’immagine suggestiva della casa edificata sulla roccia richiama immediatamente i fondamenti della personalità e della vita che Vittorio ha costruito nella sua crescita e maturazione personale - in famiglia, nella parrocchia di San Giovanni Bosco e in altri ambiti - e ha continuato ad edificare, sempre insieme a Francesca con grande sintonia e condivisione; mette in evidenza la chiarezza delle sue motivazioni, l’intensità e la bellezza dei suoi sentimenti, la linearità coerente delle sue scelte, dei suoi atteggiamenti, la passione e l’abilità di elaborare e realizzare progetti di aiuto alle persone, soprattutto chi si trovava ad affrontare le difficoltà, senza distinzioni di età e provenienze.
Ma darebbe luogo a un fraintendimento se pensassimo ad una solidità autosufficiente, costruita senza incontrare e lasciarsi incontrare. Al contrario: Vittorio è stato l’uomo dell’incontro, incontri generativi, moltiplicatori di potenzialità e di impegno, capace di mobilitare energie di bene.
Il tutto senza imporsi o esternando un fare consapevolmente serioso, mai con supponenza, ma trasmettendo leggerezza. Sapeva sorridere anche nei momenti più critici e manteneva un senso dell’humor, sempre rispettoso delle persone, che ridava agli eventi le giuste proporzioni e sapeva intravvedere le vie di uscita. La passione e il tifo per la squadra del cuore è una delle espressioni più simpatiche di questo approccio al reale.
Una casa interiore dalle porte aperte la sua, com’è l’immagine della Gerusalemme Celeste, cioè l’umanità secondo il cuore e il desiderio di Dio, evocata dall’Apocalisse, un sogno suo e nostro: “E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima, infatti, erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Egli abiterà con loro. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte”. (Ap. 21,1-4.23-25), aspirazione ben distante dal periodo storico in cui viviamo dove la notte della violenza, dell’indifferenza, della coltivazione di interessi esclusivamente personali sembra prevalere ed espandersi.
Un’idea di umanità e di casa che ha sempre ispirato Francesca e Vittorio e che condivido, dove la sicurezza coincide con l’apertura, non con l’autoreferzialità e l’esclusione difensiva.
Ma da dove deriva una solidità così intesa? Il testo di Matteo è molto chiaro: “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile ad un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. Dunque il basamento è la Parola che di natura sua è qualcosa di fluido e di circolare, che solo un ascolto attento e disponibile al cambiamento e all’innovazione può edificare e di volta in volta riadattare. Ascoltare è permettere alla parola del Signore di sollecitare la nostra sensibilità, di guardare l’altro e di rapportarsi con l’altro con la Sua stessa propensione, empatia, accoglienza, comprensione ed ospitalità.
La santità di Gesù, infatti è ospitale, non persegue e non propone la perfezione, ma la riattivazione del vivere, la sollecitazione per l’apertura verso una vita piena di chiunque incontra, senza alcun giudizio o esclusione. Perciò si lascia accarezzare dalla prostituta, esprimendo verso di lei benevolenza e tenerezza (cfr. Lc 7,36-50); si invita a casa di Zaccheo, intuendo e liberandolo dal suo disagio negato e represso, ne attiva il desidero di cambiamento fino ad allora imbrigliato dalla sua immagine pubblica (cfr. Lc 19; 1-9); mangia alla mensa di Matteo, il peccatore, affermando che la misericordia vale più dei sacrifici (cfr. 9,13), cioè più di tutti i rituali liturgici.
Ascoltare è l’attitudine a ridefinirsi, sollecitati dagli incontri che ti colgono e dagli eventi che di natura loro non sono programmabili, un cammino che richiede flessibilità, disponibilità e nello stesso tempo la lucidità e il discernimento per intuire l’orizzonte che si va aprendo e la traiettoria da seguire, con serenità, fiducia e attesa. Del resto Gesù stesso si è ridefinito, ricomprendendo la sua missione e la specificità del suo messianismo, lo stile della sua leadership religiosa, la sua identità di annunciatore del Vangelo. Così infatti reagisce al fallimento della sua iniziale predicazione: ”Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”. Si aspettava che i conoscitori della Scrittura, gli esperti del suo insegnamento, gli osservanti della Torah (i sapienti e i dotti) aderissero al suo annuncio. Ciò non accade, ma avviene al contrario, i piccoli cioè le persone irrilevanti nella conoscenza e incerti nella pratica della Legge, lo accolgono. La sua illuminata intuizione è intravvedere nel suo insuccesso, rallegrandosi con gratitudine, il tratto misericordioso del Padre - il vangelo annunciato innanzitutto ai poveri - e cogliere la dimensione propria del suo essere Messia: la mitezza e l’umiltà, a cui si ispirerà ogni suo comportamento, invitando noi a seguirlo su questo cammino: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Cfr. Mt 11,25-26.28-30)
Proprio per questo l’ascolto si trasforma immediatamente nel compimento della volontà del Padre che altro non è che la realizzazione del suo progetto di amore che nutre per ogni uomo, nessuno escluso a cui siamo chiamati a partecipare assumendocene con coinvolgimento la responsabilità.
Del resto per noi la Parola è una persona: Gesù. Ascoltare la Parola allora è essere immersi sempre nella relazione con Lui. È lasciarsi amare da Lui e amare l’altro in Lui e con Lui.
Lui sviluppa in noi le predisposizioni per affrontare anche l’imprevedibile. Lui è l’attrezzatura necessaria per non soccombere agli imprevisti, sgraditi e problematici. È l’alfabeto per cogliere ovunque le opportunità di bene.
Noi crediamo che Lui è la Parola fatta carne. Un paradosso: la Parola divina per essere conosciuta e sperimentata, per esprimersi compiutamente ha scelto di vestire le vesti della nostra fragilità, ci è venuta incontro e ci ha raggiunto nei luoghi del nostro smarrimento per camminare insieme a noi, a fianco di ciascuno di noi, anche adesso, in questo momento.
Il Prologo di Giovanni a questo proposito aggiunge che la Grazia e la Verità accaddero per mezzo di Gesù Cristo. La verità allora non è una definizione intellettualmente corretta, è un evento che coincide con una persona: Gesù. Perché è nella sua vita e nella sua morte, nel suo amore fino alla fine, che posso contemplare e sperimentare la Verità: Dio è amore. La verità è questa e Gesù lo ribadisce: nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i propri amici.
Dunque l’ascolto, la contemplazione non è separabile dall’azione, cioè dal lasciarci plasmare da Gesù, per essere impastati di Lui, lievitati da Lui, per rivestirci dei suoi stessi sentimenti.
Il Vangelo lo ribadisce: ”Non chiunque mi dice: “Signore, Signore , entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli “
Questa era l’impostazione di fede di Vittorio, che condivido molto. Non una fede proclamata all’esterno, ma che parlava di come lui era. Per lui la fede non era una sovrastruttura da esibire o affermare, ma coincideva con il suo essere persona, con la sua modalità di incontrare l’altro.
Del resto, se teniamo conto che il brano di vangelo che abbiamo letto è la conclusione del discorso della montagna che inizia con la proclamazione delle beatitudini, ascoltare la Parola è interiorizzarla e praticarla. Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli, dove povero di spirito significa colui che pone tutta la sua fiducia in Dio, che non ha bisogno di ritrovare sé stesso, di sentirsi valorizzato appoggiandosi alle cose o raggiungendo chissà quali obiettivi economici e sociali. Sa essere semplice e avere la forza che deriva dalla semplicità, cioè da una profondità lineare, un’immediatezza, una libertà che diventa benevolenza e servizio, dimensioni molto evidenti in Vittorio.
Beati gli afflitti perché Dio li consolerà e saranno consolati da tutti coloro che ascoltano la mia parola. Entrare empaticamente nell’affitto per arrecare consolazione, conforto e aprire una nuova strada, è un altro tratto di Vittorio.
L’inno alla carità di San Paolo evidenzia ancor più la dimensione di una fede che si esprime nella nostra umanità quando si lascia performare da essa. Paolo parla alla comunità dei corinti dove si erano stabilite delle gerarchie di importanza da chi riteneva di possedere dei carismi più rilevanti rispetto ad altri. Grande considerazione riceveva, per esempio, chi aveva il carisma di parlare nell’assemblea liturgica lingue non comprensibili, ma che proprio per questo era ritenuto un dono speciale, una manifestazione del mistero irraggiungibile di Dio.
San Paolo smonta questa mentalità, dicendo che se nessuno è in grado di interpretare le lingue dandone una spiegazione che serva a edificare la comunità, è un carisma inutile e ribadisce semplicemente che il migliore di tutti è la carità, dove per carità si intende l’amore così come Gesù l’ha vissuto ed espresso, una via ordinaria e disadorna, non riservata ad alcuni, ma praticabile da tutti che mette in evidenza le potenzialità della nostra umanità, ma che ci obbliga contemporaneamente a fare i conti con i nostri limiti.
Paolo riafferma con chiarezza che tre sono le dimensioni decisive per il credente: la fede la speranza e la carità, ma che più grande di tutti è la carità, virtù che nessuna morte non può interrompere.
Ed è la carità, l’amore ricevuto e dato a Vittorio che ci unisce pere sempre a lui: la risurrezione, infatti, coincide con l’amore di Dio che la morte non può interrompere, ma solo purificare ed esaltare. Così nella carità data e ricevuta siamo e saremo sempre insieme a Vittorio. Ora nella carità che ci lega, lui sostiene la nostra fede e illumina la nostra speranza.
Grazie Vittorio.